Ho letto il libro di Google scritto da Eric Schmidt e Jonathan Rosenberg. Ancora non ho capito se è incasinato di suo o se è stata la traduzione italiana a dare il colpo di grazia. Comunque, qualche dritta buona qua e là c’è. Vado in ordine sparso:
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la definizione di smart creative, pur ridondante, è accattivante. Come l’idea che le aziende dovrebbero dare più libertà e velocità, invece che ordinare di minimizzare i rischi.
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Anzi, se c’è una cosa da salvare del libro è il continuo riferimento a che cosa sia una cultura d’azienda. Come certe squadre giocano in un certo modo, così le aziende scelgono i propri valori e crescono in scala seguendoli. Mica facile.
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la definitiva stroncatura del termine “passione” inserito generalmente nei curriculum.
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la teoria secondo la quale i creativi lavorano meglio in spazi stretti.
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e che comunque si lavora meglio in ufficio che a casa.
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il “trucco” di annotare continuamente chi fa cosa e quando.
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la tendenza a scegliere le persone non per quello che hanno fatto ma per quello che vogliono fare e per la loro capacità d’imparare.
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il fatto che l’opinione della persona più alta in grado nella stanza (loro la chiamano “HiPPOs”, Highest-Paid-Person’s-Opinion) non dovrebbe essere sempre quella destinata a prevalere.
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in generale la capacità dell’azienda di aver costruito una specie di burocrazia per sviluppare la creatività.
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il ricorso dei manager al manager-coach Bill Campbell, cioè uno che teneva testa a Steve Jobs e uno di cui leggerei molto volentieri qualcosa.
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la continua citazione, tipo Sacra Scrittura, alla lettera dei fondatori allegata all’IPO del 2004.
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il fatto che i dati, al pari della tecnologia, costeranno sempre meno. Hint, studiate i numeri, il futuro è lì.
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una cosa sull’esaurimento nervoso citata da Marissa Mayer: il “burnout” non è dovuto al troppo lavoro, ma al risentimento che nasce dal dover lasciar perdere le cose che vi importano veramente.
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l’opinione su Twitter: è un’azienda editoriale, non un’azienda tecnologica.
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il diagramma di Venn che sintetizza la missione di Google X: un’idea che affronti una grande sfida che influenzerà un gran numero di persone, un’idea che presenti una soluzione radicalmente diversa da quelle presenti sul mercato, un’idea raggiungibile in un futuro non troppo lontano. Insomma, Beningni e Troisi in *Non ci resta che piangere erano una specie di Google X.
Il progresso tecnologico segue un percorso verso l’alto inesorabile. Seguitelo fino a un punto logico nel futuro e ponetevi la domanda: che cosa significa questo per noi?
Bonus: ma l’avete visto The Internship? Vabbè, almeno guardatevi la scena cult. What?!